Vi raccontiamo Peppe Zullo, uno dei migliori ambasciatori dell’eccellenza pugliese nel mondo

Vi raccontiamo Peppe Zullo, uno dei migliori ambasciatori dell’eccellenza pugliese nel mondo

A cura di Giovanni Mastropasqua e di Stefania Leo

È chiamato da tutti “il cuoco contadino”, ma la sua terra l’ha portata in giro per il mondo. La sua amata Puglia è dentro i suoi piatti, nei suoi viaggi e tra gli ormai famosissimi slogan che sono un tutt’uno con lui. Stiamo parlando di Peppe Zullo, chef tutto passione e territorio, che da oltre vent’anni offre un assaggio della Daunia autentica a Orsara di Puglia, in provincia di Foggia. Fedele rappresentante di Slow Food, di lui Carlo Petrini ha detto “ha saputo restituire alla sua terra l’orgoglio che merita“. Oscar Farinetti lo ha definito uno dei migliori ambasciatori dell’eccellenza pugliese nel mondo. Da Peppe Zullo il cibo è considerato “elemento della felicità”, valore ed obiettivo perseguito non solo nel suo ideale, ma anche nei suoi ristoranti, nella cantina e nella scuola di cucina. Lo abbiamo incontrato a Orsara, nel suo ristorante. Scaldati dal camino e dal suo vino rosè Amarosa, ci siamo fatti raccontare la sua storia condita con il suo meraviglioso “esperanto culinario”, un “linguaggio” american-orsarese che lo ha reso così straordinariamente unico.

Come nasce il Peppe Zullo che conosciamo oggi?

Tutto ebbe inizio negli anni Sessanta quando mia madre, in tempi non sospetti, prese in gestione una pompa di benzina a Orsara di Puglia. All’epoca ero molto piccolo, avevo tra i 10 e i 15 anni. Di fronte al distributore, costruimmo un chiosco in muratura in cui vendevamo panini con la mortadella e birra Peroni. Oggi lo chiamano street food, no? Avevamo anche una camera, che affittavamo. Negli anni Settanta si parlava molto di America, anzi di Stati Uniti, dove uno andava e diventava presidente o Rockfeller. Anche io feci un sogno, il cosiddetto American Dream: andare lì e aprire un ristorante. Così feci la mia valigia di compensato e partì oltreoceano.

Come hai preso i contatti?

Avevo un amico, che a sua volta aveva uno zio a Boston, e ogni tanto andava a trovarlo. Così una volta gli ho detto: “Vengo pure io”.

La passione per la cucina c’era già?

Già cucinavo quel che era il cibo popolare nel chiosco di famiglia. Mia madre è stata la mia prima ispirazione.

Cos’è successo dopo?

Una volta lì prima ho fatto il meccanico, aprendo un garage con questo mio amico. Poi ho aperto Peppe’s. Fu una prima esperienza tosta, forte. Facevamo cucina italiana, ma non la pizza. Venivano molti americani, specialmente ebrei, che uscivano spesso per cenare fuori. Gli italiani rimanevano in casa.

Chi ti ha finanziato?

Quando sono partito, avevo trecentomila lire. Poi ho fatto un po’ di soldi lì. Ma questo ristorante non fu una cosa costosissima. All’epoca era facile: le difficoltà e la burocrazia pesavano meno.

Quanto è durata questa esperienza?

On e off, un tre anni. Poi ho aperto Italian American Corporation: facevamo cucina italiana, anche se negli anni Ottanta in America era difficilissimo fargliela capire. Poi sono andato a Las Vegas, e subito dopo sono stato chiamato da un mio amico in Messico, a Puerto Vallarta.

Cosa rappresentava secondo te l’italianità in cucina negli Stati Uniti?

Per identificare gli italiani a volte si usava l’espressione spaghetti meatball, perché era diventato il simbolo della loro cucina. Una volta ho realizzato un evento proponendo le breadball invece di quelle con la carne, che io preferisco. Ci sono cresciuto, a polpette di pane!

Com’era la cucina italiana all’epoca, in America?

Ricca. Una delle cose più pesanti che si potessero mangiare era la Chicken eggplants parmigiana. Facevano la Parmigiana con queste melanzane, belle piene e untuose, alternata con pomodoro, mozzarella e delle fettine di pollo. Una bomba, che ancora oggi alcuni ristoranti fanno. Poi il vino ha seguito il cibo, e il cibo ha seguito il vino…

In che senso?

Negli anni settanta si esportavano pochissime etichette. Ricordo che c’era questo vino che agli americani piaceva molto, si chiamava Cantine Riunite, era un Lambrusco frizzante. A loro piaceva proprio per questo e perché era un po’ dolciastro. C’erano i Chianti Classico in bottiglie rivestite di paglia, qualche Barolo… Io ero innamorato del Verdicchio, che per fortuna c’era: all’epoca Umani Ronchi già esportava verso l’America, con questa anfora che aveva un grande successo.

Il ritorno in Italia?

In Italia sono tornato negli anni ’80. Abbiamo iniziato da un tavolo grande e una piccolissima cucina e pian piano siamo cresciuti. Erano anni particolarmente felici, l’economia andava molto bene e la ristorazione iniziava a funzionare. Così è nato il mio primo ristorante, il ristorante Peppe Zullo.

E poi è arrivata Villa Jamele, nel 1999.

Il proprietario storico, il primo Jamele, morì negli anni Cinquanta. Dato che non aveva figli, lasciò tutto ai nipoti, che tennero la struttura in buone condizioni fino agli anni settanta. Quando l’ho rilevata, era fatiscente. Le masserie sono un patrimonio italiano, qui in Puglia ancora di più: ce ne sono alcune che sono dei borghi. La mia idea è stata rilevarla e recuperarla. Erano tempi belli, in cui si lavorava tanto, c’era business…

La Daunia ha un’economia prevalentemente agricola, giusto?

Sì. Se scendiamo verso il Tavoliere, abbiamo terreni straordinari. Siamo i più grandi produttori di carciofi, con 13 mila ettari di terra coltivati. Poi c’è l’asparago verde. C’è un signore che coltiva 600 ettari di sedano tutto l’anno.

Parliamo di Peppe Zullo, l’uomo. Cosa ti ha dato la popolarità? Quando hai iniziato a vedere l’affetto della gente nei tuoi confronti?

Peppe Zullo come idea, filosofia, ha incontrato molte difficoltà. Quando parlavo di orto, di grano arso, di ambiente, di natura, di sostenibilità, di biodiversità, trent’anni fa, dicevano “Chist è nu pacce”. Oggi tutti ne parlano.

È stato un percorso all’incontrario, dunque.

Durante l’ultimo Appuntamento con la Daunia (manifestazione Slow Food, ndr.) ci siamo confrontati su questi temi, a partire dal primo passo sulla Luna di Armstrong a oggi. C’è stato un percorso incredibile. Ricordo che all’epoca si diceva che non avremmo mangiato più cibo, ma solo pillole. E invece non è successo, anche se negli anni Ottanta c’è stata la smania di copiare gli americani, con piatti tipo Panna, salmone e cha cha cha. Quello che mi ha aiutato in questi anni è stato Slow Food, che ha sempre portato avanti la filosofia del “buono, pulito e giusto”. Dico sempre: cosa sarebbe il mondo senza Slow Food? Ho avuto ospite da me spesso Carlin Petrini, che ha girato l’Italia per capire cosa si faceva. Sono stati operativi, pratici. Devo molto a questa realtà. E poi c’è stata la forza di fare…

Poi è arrivata anche la tv.

Ricordo cose molto belle che ho fatto, tra cui un programma col Gamebro Rosso, “A casa dello chef”.

Un vero precursore di MasterChef! Ma perché si va da Peppe Zullo?

Perché non siamo un ristorante normale. La nostra è un’esperienza che rimane. Quando in America si parla di andare in un locale, loro lo definiscono come dining experience. È l’esperienza nell’insieme: il luogo dove vai, l’ambiente, l’aria che si respira, il servizio, l’originalità dei piatti. Se hai avuto un’esperienza gastronomica completa, va bene. Poi da noi, tocchi un territorio. A parte le stelle e i riconoscimenti, vedo gente che vuole entrare in questo mondo. Poi devi essere tu bravo a trasformare un lampascione in un piatto importante.

Che percentuale di importanza dai al gusto e alla salubrità del piatto?

L’essere umano è un animale, usa tutti e cinque i sensi, almeno in relazione al cibo. Quindi un piatto deve essere prima di tutto bello. Poi ci sono i profumi: se un cibo puzza, non lo mangio. Dopo di che c’è il gusto, una cosa molto importante. La nostra bocca è un laboratorio di analisi organolettica. Il cibo deve essere piacevole, deve farmi venire voglia di mangiare ancora. È un fattore che dipende anche dall’esperienza di chi viene a mangiare.

Chi sono i tuoi clienti?

Lavoriamo con un raggio d’azione di un centinaio di km, da Bari e Avellino. Ma arrivano fortunatamente da tutto il mondo

Qual è il giorno di chiusura e come va il ristorante fuori dalle feste?

Di solito chiudiamo il martedì. Fuori dalle feste è più tranquillo. Quando non c’è clientela, facciamo manutenzione: c’è sempre tanto da fare. Bisogna essere polivalenti, multifunzionale, versatili. Se sei monotematico, non vai da nessuna parte.

Raccontaci la Cantina del Paradiso

Questa cantina ha poco più di vent’anni ma ha avuto il privilegio di essere stata premiata alla biennale di Venezia nella sezione “Le Cattedrali del vino”. Questa struttura sotterranea è a tutti gli effetti un’opera d’arte che racconta lo spazio, la passione e l’ingegno di un luogo capace di essere contenitore – e quindi di accogliere – ma anche de essere esso stesso “contenuto”. Oggi è un piccolo centro storico sotto la vigna, che unisce architettura, arte, vino e cibo. L’ambiente è molto suggestivo, con questi cardi e decumani. Abbiamo un cinema e una sala convegni. Abbiamo vicoli e vicoletti. Abbiamo le case, come quella del pomodoro dove riponiamo la nostra passata. C’è quella dei peccati, di gola ovviamente. Per tutto questo enorme lavoro non posso non ringraziare tutte le persone che hanno dato il loro importante contributo e, tra i tanti, l’enologo Severino Garofano, l’architetto Nicola Tramonte che ha disegnato l’intera opera, e il pittore Leon Marino che ha affrescato tutta la cantina.

Un universo fatto di tanti pianeti, quello di Peppe Zullo. Ma, contrariamente alla Luna o a Marte, sono tutti completamente accessibili a chiunque ha voglia di andare a Orsara di Puglia, sedersi a tavola e assaggiare che sapore ha la cultura gastronomica di un territorio eccezionale come la Daunia.

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