Celiachia, una farina con glutine ma depurata dalle tossine

Celiachia, una farina con glutine ma depurata dalle tossine

Una farina con glutine ma depurata dalle tossine e quindi priva dell’effetto tossico dello stesso glutine. È probabile una possibile svolta per tutti i celiaci del mondo grazie alla definizione di un metodo scientifico volto a produrre farine con glutine senza le tossine che provocano intolleranze e allergie. La ricerca è stata condotta dall’Istituto di scienze dell’alimentazione-Cnr di Avellino. “Con questa formula il glutine non viene più riconosciuto dai linfociti responsabili dell’infiammazione. Da un punto di vista tecnologico e organolettico non ci sono differenze sostanziali con la normale farina”, spiega Mauro Rossi, ricercatore senior del centro. Responsabile di questo processo di ‘depurazione’ è un trattamento enzimatico “food grade” effettuabile direttamente sulle farine o semole di grano.


Grazie alla collaborazione con il Policlinico Umberto I di Roma proseguiranno i test clinici nella speranza di arrivare entro la fine dell’anno alla messa in commercio della farina detossificata. Secondo l’Associazione Italiana Celiachia in Italia sono 150 mila i celiaci diagnosticati su 600 mila individui potenzialmente intolleranti al glutine, una quota pari all’1% della popolazione.

Non solo farine detossificate: bisogna recuperare l’antico patrimonio genetico del vecchio grano

Sempre più spesso si sente parlare del recupero del patrimonio genetico delle varietà di grano locali. La perdita di specie cerealicole, l’impoverimento dei suoli e l’aumento del numero di individui affetti da malattie legate alla malnutrizione hanno portato al reinserimento di varietà antiche nelle provette dei centri di ricerca, nei campi agricoli e sulle nostre tavole. Un fenomeno italiano che sta avendo largo seguito in tutto il mondo, spinto dalla necessità di fronteggiare gli effetti dei cambiamenti climatici e della distribuzione ineguale delle risorse alimentari tra i popoli.

La storia del grano, le origini e le mutazioni

La coltivazione del frumento e il processo di panificazione hanno origini antichissime. Le prime tracce di addomesticazione del frumento selvatico nella mezzaluna fertile, il territorio che oggi va dalla Siria a parte dell’Egitto, risalgono a circa 12mila anni fa. Le prime testimonianze della raccolta delle sementi arrivano 10mila anni fa, epoca in cui l’uomo si è organizzato in una struttura sociale civile, la città. Le nostre città, quindi, devono la loro esistenza alla scelta dell’uomo di stanziarsi in villaggi, vicini ai campi agricoli che coltivava.

Con l’avvento del XX secolo si iniziò a studiare il patrimonio genetico di molte specie cerealicole, grazie all’operato di Nazareno Strampelli. L’agronomo e genetista marchigiano selezionò numerose varietà di frumenti attraverso la cosiddetta “ibridazione”, l’incrocio tra più specie, cogliendo il plauso dei connazionali solo durante il fascismo. La cosiddetta “battaglia del grano” chiuse le frontiere dell’Italia al grano sovietico rendendo il paese indipendente dall’importazioni grazie alle “sementi elette”, come le definì Benito Mussolini.

Il fusto del frumento antico, più alto di quello moderno, si piega più facilmente sotto l’azione del vento e della pioggia. Le spighe di grano antico sono più grandi ma con un numero inferiore di semi e un contenuto inferiore di glutine, essenziale nei processi di panificazione. Per questo, la rivoluzione verde degli anni Sessanta ha portato alla selezione delle specie in grado di reagire agli attacchi dei parassiti, alla siccità e che restituivano raccolti più abbondanti e facilmente lavorabile con le macchine.
Il passo verso la mutagenesi indotta è breve. Nel 1974, nel centro di ricerca dell’Enea, Villa Casaccia di Roma, iniziano le sperimentazioni per nanizzare il grano. Il processo della mutagenesi indotta agisce attraverso la radiazione con raggi gamma del cobalto radioattivo sul DNA delle sementi. Oggi, le multinazionali detengono tutte le royalties sui grani moderni, ottenuti per mutagenesi.

I programmi di sperimentazione colturale e recupero delle varietà antiche
La produzione di grano moderno prevede la coltivazione di sementi nanizzati, trattati con concimi e pesticidi chimici. Le colture a scala industriale, ma anche quelle gestite da piccole e medie imprese, prevedono l’impiego di macchinari pesanti e tecnologie che inquinano e impoveriscono il suolo.

Per combattere la perdita di biodiversità e per tornare a una produzione più sana e rispettosa, in molte delle regioni dedite alla produzione di frumento sono attivi dei programmi di recupero delle varietà cerealicole antiche. Per esempio in Abruzzo, in provincia di Teramo, e in Emilia Romagna si coltiva una varietà importata dall’Egitto nel 400 d.C., la Saragolla, che presto fu soppianta dai grani venuti dell’Africa e dal Medio Oriente.

In Cilento viene coltivato un grano tenero semi selvatico già noto agli antichi romani, il Carosella, abbandonato per varietà più adatte alla trebbiatura meccanica.

E ancora, nell’alta Maremma si trovano campi di grano Verna, Gentilrosso e di Frassineto prefetti per il clima, l’altitudine e la tipologia del suolo.

Mentre in Sicilia, nell’entroterra catanese, si coltiva il grano duro Timilia, già noto ai greci per la resistenza ai lunghi periodi di siccità e per questo particolarmente adatto al clima del bacino mediterraneo.

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